Birdman (recensione)

Birdman è l’ultimo film del regista messicano Alejandro González Iñárritu, presentato all’ultimo Festival di Venezia, che ha generato un animato chiacchiericcio da parte di pubblico e critica. Il film è uscito nelle sale americane lo scorso ottobre e ha ottenuto il più alto numero di nomination ai prossimi Oscar, ben nove, al pari di The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson.

Il protagonista è un affermato attore hollywoodiano, Riggan Thompson, famoso per aver interpretato un supereroe sul grande schermo e deciso a dimostrare al grande pubblico le sue capacità attoriali tramite l’adattamento teatrale di un libro di Raymond Carver. Conosceremo tutta la compagnia impegnata nella pièce teatrale, l’agente di Riggan e il dietro le quinte del teatro di Broadway, fulcro di tutta l’azione.

Gli aspetti metacinematografici della pellicola sono molteplici, a cominciare dal riuscitissimo cast: Michael Keaton è Riggan/Birdman, uno dei Batman diretti da Tim Burton, rimasto come uno degli uomini pipistrello più iconici al cinema. L’egocentrico Mike Shiner è Edward Norton; lo stesso che ha rifiutato il ruolo di Hulk nella trasposizione cinematografica di The Avengers, più volte citato durante il film. A completare il cast Naomi Watts nel ruolo di un’attrice che sogna da sempre di calcare un qualsiasi palco di Broadway ed Emma Stone nei panni della figlia di Riggan.

Il regista affonda un colpo da vero maestro. Il film è girato come un unico piano sequenza, senza nessun apparente taglio di montaggio, con una macchina da presa che si muove in maniera labirintica nei meandri delle quinte del teatro. Con una narrazione a tratti soffocante, il punto di vista cambia di continuo e diventa in soggettiva quello di uno dei protagonisti, poi quello di un narratore diegetico, poi extradiegetico. Il film riflette sullo spettacolo in senso lato: sulla condizione dell’attore ai tempi della fama consumata sui social network e calcolata sulla base delle visualizzazioni su youtube, sull’impossibilità di scrollarsi di dosso un ruolo che Hollywood ti ha affibbiato, sul potere che la stampa ha di esaltarti e demolirti insieme, sull’ego dell’artista sviscerato in tutte le sue forme. Iñárritu riesce a raccontare tutto questo in quasi due ore di pellicola con un ordinato senso del caos, interno ed esterno ai protagonisti, costruendo un racconto lucido e rocambolesco perfettamente orchestrato.

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