Colonia (recensione)

Colonia è il film del 2015 diretto da Florian Gallemberg, regista tedesco e Oscar al miglior cortometraggio nel 2011, che racconta la storia difficilissima di Colonia Dignidad. Il film è rientrato nella selezione ufficiale del Toronto International Film Festival del 2015 e poi proiettato alla Berlinale del 2016. Nota nel doppio nome di Villa Baviera, Colonia Dignidad è stato un villaggio che ospitava migranti tedeschi e campo di tortura durante la dittatura di Augusto Pinochet.

La storia parte dal giorno in cui in Cile avviene il colpo di stato di Pinochet, nel 1973. Lena è un hostess di Luftansa e il suo fidanzato Daniel è un photoreporter, sostenitore di Salvador Allende, che si occupa di fotografare i moti rivoluzionari di quella stagione. Il giorno stesso del colpo di stato i due giovani tedeschi vengono catturati perché militanti di Allende. Riconosciuto da una spia, Daniel viene portato a Colonia Dignidad e torturato dal diabolico capo della setta: Paul Shäfer. Una volta scoperta la destinazione di Daniel e l’esistenza di Colonia Dignidad, Lena decide di unirsi volontariamente alla setta per cercare di liberare il suo fidanzato. Partirà un piano che vedrà Daniel e Lena a tentare qualsiasi via di fuga dalla blindatissima prigione.

Il cast è composto da Emma Watson (Lena), Daniel Brühl (Daniel) e Michael Nyqvist (Paul). Senza entrare nel merito dell’ovvia bravura degli attori, qui in ruoli non al massimo delle loro prestazioni, colpisce la costruzione dei tre personaggi che interpretano e la loro interazione; fra i tre s’istaura un continuo gioco di forze antagoniste per tutta la durata della pellicola.

L’impianto del film è costruito a metà secondo i canoni della spy-story e del prison-movie ma, a differenza di questi, il regista lascia ampio spazio alla storia romantica dei due protagonisti. La tensione drammatica è costruita principalmente sul rapporto fra Lena e Daniel; tra i due s’insinua la figura di Paul, forse il personaggio scritto meglio, allo stesso tempo carnefice e padre spirituale del campo di concentramento. La fuga è vissuta come il tentativo di liberazione e il coronamento della storia d’amore. Uno spazio maggiore alla speranza di una liberazione collettiva dei detenuti avrebbe, forse, convinto maggiormente; fuga collettiva intesa come liberazione di un popolo e rivendicazione dei diritti umani. Nell’incensare la storia d’amore questo purtroppo non avviene.

È apprezzabile la capacità con cui Gallemberg riesce a costruire svariati momenti drammatici che raggiungono picchi tensivi non indifferenti. Nel complesso, Colonia si rivela un’occasione sprecata; in favore del romance-plot perde un po’ di significato il portare alla luce uno dei tanti crimini perpetrati nella storia dell’umanità.

Fuocoammare (recensione)

Fuocoammare è il vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino. Il regista Gianfranco Rosi, già vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2013 per Sacro GRA, è l’unico italiano in concorso alla Berlinale 2016. Il film è stato realizzato grazie alla collaborazione tra l’Istituto luce, Rai cinema e Arté Francia.

Il documentario nasce inizialmente come corto per raccontare la tragedia degli sbarchi a Lampedusa. L’occhio del regista segue in parallelo il flusso migratorio, la vita del piccolo Samuele, quella della zia Maria e il lavoro del medico Pietro Bartolo. Non c’è nessun personaggio di finzione, tutti i protagonisti appaiono nel ruolo di se stessi.

Il lungometraggio ha avuto una gestazione lunga; infatti, il regista si è fermato per un anno nell’isola siciliana in modo da poter entrare in simbiosi con i ritmi e la vita del luogo. Rosi guarda i luoghi e le persone ma è il mare a fare da protagonista in tutta la sua complessità. Il regista spoglia il documentario dalla forma canonica dell’intervista e segue con occhio paziente le vicende dei protagonisti, senza pretendere niente ma prendendo solo quello che gli viene donato. I migranti vengono seguiti dai barconi alle navi di soccorso della marina militare, vengono mostrati all’interno dei centri d’accoglienza mentre giocano a calcio e nel momento delle visite mediche. Il dottor Pietro Bartolo si occupa del centro d’accoglienza di Lampedusa da anni e attraverso la sua esperienza lo spettatore riesce ad avere una testimonianza lucida e non piegata alla routine; per niente scontato è l’atteggiamento compassionevole e umano che il medico mostra nei confronti dei profughi. Il piccolo Samuele, figlio di pescatori locali, è forse l’emblema del film; il regista lo segue nei suoi pomeriggi di gioco con la fionda tra gli alberi e il suo occhio pigro diventa la metafora di Fuocoammare: cercare di guardare con altri occhi il flusso migratorio senza innalzare barriere fisiche ma abbattendo quelle mentali.

Il rapporto fra Lampedusa e il mare è il messaggio dell’opera: «tutto quello che viene dal mare è il benvenuto».